Nel corso dell’ultimo decennio, il mondo della musica è stato rivoluzionato dallo streaming digitale. Tra le piattaforme protagoniste di questa trasformazione, Spotify occupa senza dubbio il primo posto. Con centinaia di milioni di utenti attivi, il servizio ha reso l’accesso alla musica globale più facile, rapido ed economico che mai.
Tuttavia, dietro questa apparente democratizzazione dell’ascolto si nasconde una crescente frattura tra la piattaforma e la comunità artistica.

La critica degli artisti: “Spotify non ci valorizza”
Sempre più musicisti, soprattutto indipendenti, denunciano un sistema che premia i numeri, ma non il talento. Le voci critiche si sono moltiplicate nel tempo e tra queste spiccano nomi di peso come Jean-Michel Jarre e Björk. Il pioniere della musica elettronica ha accusato Spotify di voler operare senza il contributo degli artisti, riducendoli a meri fornitori di contenuti. Ancora più diretta Björk, che ha definito la piattaforma “una delle cose peggiori che siano mai successe ai musicisti”.
Secondo questi artisti, l’algoritmo e le logiche commerciali della piattaforma penalizzano la creatività, favorendo contenuti più generici e facilmente consumabili. Una musica sempre più usa e getta, dove la qualità artistica passa in secondo piano rispetto alla capacità di generare clic.

Il nodo della remunerazione
Il punto più critico rimane però quello economico. Nonostante i numeri da capogiro in termini di ascolti e abbonamenti, la quota destinata agli artisti continua a essere sorprendentemente bassa. Secondo alcune stime, un musicista indipendente dovrebbe accumulare oltre quattro milioni di stream mensili per raggiungere il salario minimo negli Stati Uniti. Una soglia irraggiungibile per la maggior parte degli artisti emergenti.
A rendere ancora più difficile la situazione, è il cambiamento nella ripartizione delle royalties. Nel 2015, Spotify destinava circa l’88% dei suoi ricavi agli artisti e alle etichette; oggi, quella cifra è scesa al 70%, con una fetta sempre maggiore che resta nelle mani della piattaforma o viene investita in altri settori.
Questa diminuzione ha generato un malcontento crescente, alimentando la sensazione che il sistema non sia più al servizio della musica, ma di un’industria che macina contenuti a ritmo industriale, spesso a scapito dei creatori stessi.

Musica stock e algoritmi: qualità in calo?
Un altro aspetto controverso riguarda la crescente presenza di musica stock o generata automaticamente nelle playlist più popolari. Spotify, nel tentativo di ottimizzare i costi e aumentare il coinvolgimento degli utenti, ha iniziato a inserire brani di produzione economica, spesso privi di un vero autore.
Questa scelta sta progressivamente abbassando la qualità media dell’offerta musicale, rendendo più difficile per gli artisti autentici emergere. Le produzioni curate, originali e sperimentali rischiano di essere oscurate da contenuti più “algoritmici” e standardizzati, costruiti appositamente per favorire il consumo passivo.

La grande contraddizione: accesso facile, guadagni bassi
La forza di Spotify sta nella sua accessibilità e varietà. Milioni di persone ascoltano ogni giorno musica di ogni genere, da ogni parte del mondo. Questo, da un lato, è un grande traguardo per la cultura musicale globale. Ma
dall’altro lato, c’è una disconnessione sempre più profonda tra il valore percepito dalla musica e il suo riconoscimento economico.
I musicisti, veri motori di questo sistema, si trovano spesso incastrati in una spirale insostenibile: da un lato devono essere costantemente presenti, promuoversi, produrre e pubblicare nuovi brani; dall’altro, vedono ricavi minimi, spesso insufficienti perfino a coprire le spese di produzione.

Qual è il futuro dello streaming?
Le critiche rivolte a Spotify non riguardano solo un singolo servizio, ma toccano l’intero modello economico della musica digitale. È possibile trovare un equilibrio tra accessibilità per gli utenti e giusta remunerazione per gli artisti? È sostenibile un sistema in cui solo una minuscola percentuale di musicisti riesce a vivere del proprio lavoro?
Molti artisti, etichette indipendenti e professionisti del settore chiedono più trasparenza, maggiore equità e alternative valide al monopolio attuale. Alcuni esplorano piattaforme decentralizzate, altri puntano su supporti diretti come Bandcamp, Patreon o concerti dal vivo digitali.

Conclusione
Spotify ha cambiato per sempre il modo in cui ascoltiamo la musica. Ma se davvero vogliamo che la musica continui a vivere, innovarsi ed emozionarci, dobbiamo anche ripensare il modo in cui valorizziamo chi la crea. Le riflessioni di artisti come Jarre e Björk non sono solo sfoghi personali, ma campanelli d’allarme che ci invitano a porci una domanda fondamentale: quanto vale davvero la musica?

Fonti: Macitynet, Wikipedia