Continuiamo il nostro approfondimento sul ruolo dell’etichetta, non perderti l’articolo PARTE 1.
Fare un paragone fra le etichette discografiche degli anni ‘90 e quelle attuali è praticamente impossibile. Per il semplice fatto che, a parte “il prodotto” canzone, per tutto il resto possiamo assolutamente parlare di un altro mondo, di un’altra era.
Il mondo discografico, gestito anche all’epoca dalle grandi multinazionali e dalle grandi etichette, viveva (e bene) soprattutto della vendita del supporto su cui erano registrate le canzoni: ovvero i cd o i vinili (questi ultimi già in calo negli anno ‘90). Ma nel momento stesso in cui fu possibile aggirare l’acquisto dei cd attraverso l’ascolto dei brani scaricabili dalla rete (quindi con l’avvento del formato mp3 e di linee telefoniche sempre più potenti e in grado di permettere lo scambio di files di sempre più grandi dimensioni), tutto il castello sui cui si basava la ricchezza delle etichette discografiche saltò completamente in aria, mettendo l’industria musicale davanti a scenari imprevisti che nessuno per diversi anni ha saputo contrastare se non attraverso sterili campagne di propaganda contro la pirateria musicale.
Quindi rispetto agli anni ‘90 le differenze sostanziali sono: i costi e i mezzi di produzione (sempre più bassi e sempre più alla portata di “non tecnici”) e i mezzi di diffusione. Per tacere della promozione musicale (altro capitolo non secondario) che, sempre attraverso internet (e in particolare i social) ha permesso a chiunque (da qualche anno a questa parte) di trovare vie di autopromozione inimmaginabili nel secolo scorso.

Ma andiamo ad analizzare ad una ad una queste macro differenze.

Primo: la produzione.
Negli anni ‘90 hanno fatto la comparsa i primi home studio, che erano appannaggio di pochi perché comunque, per quanto non come uno studio di registrazione vero e proprio, le apparecchiature (non solo computer molto potenti e molto costosi, ma registratori multi traccia Adat, Tascam, o anche le primissime versioni di ProTools) non erano proprio a buon mercato. Oltre a richiedere competenze specifiche non proprio per tutti. Fare musica costava, e parecchio. Adesso, per una buona produzione, si può spendere davvero poco. E i software e i vari plug in sono molto intuitivi e semplici da gestire. Uno studio di home recording, anche di buon livello, ha costi assolutamente abbordabili. Questo vuol dire che fare musica è assolutamente alla portata di tutti. Con risultati qualitativamente molto diversi (perché essere musicisti conta ancora parecchio, checché se ne dica). Ma comunque è molto facile creare il fonogramma pronto per essere caricato sulle piattaforme digitali..
La possibilità quasi per chiunque di poter autoprodurre musica ha generato una quantità di proposta musicale enorme, ben oltre la capacità del mercato di assorbirlo. E’ praticamente impossibile ascoltare tutto quello che viene pubblicato. Tenendo conto poi dell’utilizzo dei social per la promozione (o auto promozione), rischia di avere più appeal che riesce “a vendersi” meglio, rispetto a chi ha una canzone migliore, ma che magari è meno social..
E che il marketing stia surclassando l’arte, beh, ce ne stiamo accorgendo tutti quanti.

Seconda differenza fondamentale: Il supporto di diffusione.
Come si ascolta la musica al giorno d’oggi?? Attraverso lo streaming audio (Spotify, Amazon Music, Apple Music, ecc) e video (Youtube). Negli anni ‘90 si acquistavano I cd o I vinili. Le persone pagavano per avere la loro musica a portata di mano. Un cd costava intorno a 20 mila lire (più o meno 20 euro). Per 10/15 canzoni del proprio cantante preferito. Pensate!
E nonostante produrre musica costasse parecchio di più, vendendo i cd si poteva guadagnare bene, se il disco piaceva.

Ora per riuscire a guadagnare dagli stream sulle piattaforme digitali bisogna fare numeri altissimi, (milioni di stream) affidandosi alla comprensione di algoritmi capricciosi e lunatici che ne regolano l’andamento. Altrimenti sono davvero briciole quelle che si ricavano. E con le briciole non mangia davvero nessuno…
Quindi lo sforzo delle etichette è nel “intuire” le strategie per capire meglio questi strani meccanismi, piuttosto che per creare musica di qualità, canzoni che durino nel tempo. Con la conseguente e inevitabile decadenza artistica, che porta a produrre musica con una durata di consumo brevissima che porta risultati immediati e non di lunga durata (quante canzoni di quelle che stiamo ascoltando in questa estate 2022 ci ricorderemo fra uno o due anni?? Pochissime! Molto più probabile che durante una festa dell’estate 2023 intoneremo ancora Gloria di Umberto Tozzi o La canzone del sole di Battisti.)

Il ruolo dell’etichetta si è dovuto adattare molto a questo cambiamento. L’attenzione è incentrata su modi sempre diversi di valorizzare il proprio catalogo (piccolo o grande che sia) e di mettere a disposizione più servizi di produzione e promozione, avendo la necessità di produrre profitti.
Ora questa caratteristica (quella di cercare e sviluppare talenti) che può sembrare ovvia, spesso viene messa in secondo piano.
L’etichetta “dei giorni nostri” deve tenere conto di mille cose: dalla gestione dei diritti (molto più intricata e diversificata che nei decenni scorsi). Deve essere capace di promuovere o aiutare l’artista a farlo attraverso i sistemi digitali.
Ma dovrebbe anche non dimenticarsi di avere un ruolo artistico. E cercare di creare artisti e musica che duri nel tempo. Perché questo è davvero il migliore investimento.

Articolo di Marco Giorgi