Negli ultimi anni, il panorama della musica dal vivo in Italia ha subito una trasformazione silenziosa, ma devastante.
Mentre gli occhi sono puntati sui tour nei grandi stadi che faticano a vendere biglietti, lontano dai riflettori gli artisti indipendenti ed emergenti stanno vivendo una vera e propria emergenza culturale: non riescono più a trovare spazio per esibirsi, crescere e farsi conoscere.
Una volta c’erano i piccoli live club, i centri sociali, i festival locali, le rassegne nei teatri cittadini, le serate open mic nei bar. Oggi molti di questi spazi sono scomparsi, o si sono trasformati in qualcosa di molto diverso. I locali superstiti, stretti tra l’aumento dei costi e la necessità di attirare pubblico sicuro, preferiscono proporre serate con DJ set o tribute band, band che suonano cover di grandi artisti per garantire incassi e consumazioni.
Chi propone musica originale, invece, si sente spesso dire: “Sì, ma almeno mettici qualche canzone conosciuta”, oppure “Qui la gente vuole ballare, non ascoltare”. Il risultato è che interi progetti artistici vengono scoraggiati, o restano confinati alle piattaforme online, senza alcun contatto reale con un pubblico fisico. Questo è particolarmente grave perché il live è da sempre il momento in cui un artista trova la propria voce, impara a reggere una scena, ascolta le reazioni vere delle persone. Non è solo spettacolo: è formazione, autenticità, crescita.
Prendiamo l’esempio di una giovane cantautrice di provincia che ha appena pubblicato il suo primo EP autoprodotto. Ha 2.000 ascoltatori mensili su Spotify, una community su Instagram, qualche video su YouTube. Ma quando prova a organizzare una data nel suo territorio, si sente dire: “Porti almeno 50 persone? Altrimenti non ci conviene”. Oppure deve affittare la sala, pagare il fonico, l’impianto, e magari anche portarsi il pubblico. In pratica, l’artista emergente oggi deve anche essere organizzatore, promoter, tecnico audio e PR, il tutto senza alcuna garanzia di guadagno o di supporto.
Non va meglio nei grandi centri urbani. Milano, Roma, Napoli, Bologna: città storicamente musicali, che pure stanno perdendo tessuto culturale. I locali storici chiudono, le rassegne indipendenti vengono cancellate per mancanza di fondi, i concorsi vengono trasformati in operazioni a pagamento, dove spesso si paga per suonare o si devono vendere biglietti agli amici per poter accedere a una finale. Non è meritocrazia, è marketing al ribasso.
Eppure, gli artisti indipendenti sono il cuore pulsante della scena musicale italiana. Sono quelli che innovano, che osano, che raccontano il presente senza filtri. Sono quelli che si autoproducono, che investono sulle proprie idee, che costruiscono reti e comunità dal basso. Se a questi artisti non viene data la possibilità di esibirsi, di suonare dal vivo, allora stiamo spegnendo lentamente una delle poche voci libere rimaste.
Oggi in Italia la musica originale rischia di essere ascoltata solo online. Ma la musica, per esistere davvero, ha bisogno di persone in una stanza, di emozioni condivise, di palchi – anche piccoli – su cui inciampare, improvvisare, crescere. E il pubblico ha bisogno di essere educato a questo: non solo ad applaudire il famoso, ma anche ad ascoltare chi ancora non è arrivato.
Ci vorrebbero politiche culturali serie, incentivi per i locali che programmano musica inedita, bandi regionali per sostenere i piccoli tour, campagne pubbliche per valorizzare la creatività dal vivo. Ma soprattutto serve un cambio di mentalità collettivo, per capire che non si può costruire il futuro della musica su una playlist di Spotify o su una serata di karaoke. Il futuro della musica italiana passa anche – e soprattutto – da un palco di provincia, una sala prove condivisa, un artista sconosciuto che ha qualcosa di vero da dire.
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